CAPODANNO  AL  CORCHIA
Di  Bese

Vi è mai capitato di arrivare l’ultimo giorno dell’anno e non sapere cosa fare? A me e  Katya capita regolarmente. Lo stesso avveniva il lontano 31 Dicembre 1998, quando all’ultimo minuto decidemmo di festeggiare S. Silvestro aggregandoci ad uno sparuto gruppo di speleo, ben decisi a stappare una bottiglietta nell’Antro del Corchia  (Grotta nel gruppo delle Alpi Apuane in Toscana).

  Arrivati sul posto nel tardo pomeriggio, ci preparammo ad entrare sotto scrosci di pioggia fredda ed antipatiche raffiche di vento freddo. Quindi accompagnai Giacomo ad armare il “serpente”, ovvero il meandro utilizzato come uscita dalla grotta  che rimane, stando ai miei ricordi, circa  200 /300 metri di dislivello a valle dell’ingresso.

 Percorso il tratto che ci separava dal primo pozzo dal quale saremmo risaliti uscendo, Giacomo calò la corda e la seguì egli stesso. La mia innata pigrizia mi impedì di scendere a mia volta, cosa della quale mi sarei pentito in seguito. Ritornammo quindi sui nostri passi per ricongiungerci agli altri. Già, ma quali altri? Si perché la formazione era la seguente: io e Katya in qualità di turisti per caso, Paola ed il povero Marcello, trascinato in grotta come sempre suo malgrado, Cico e Giacomo in qualità di guide. Da notare che Cico aveva effettuato la  traversata non meno di sette anni prima e perciò ricordava il percorso solo per la prima metà. Giacomo invece, conosceva solo la parte finale dell’itinerario che per altro aveva a suo tempo iniziato al contrario, senza  riuscire a completarlo.

 Lasciammo quindi le macchine per risalire la collina nel buio e sotto una pioggerellina battente. Cico come al solito efficientissimo, riuscì a districarsi  nella frana che nascondeva l’ingresso tra grossi blocchi di marmo, permettendoci in breve di guadagnare un riparo. Una volta entrati cominciarono i primi problemi. Giacomo difatti, lamentava  dolori lancinanti all’addome, probabilmente dovuti  ad un colpo d’aria o ad una congestione. La sua condizione ci spinse quindi a convincerlo a non avventurarsi oltre. Marcello da persona saggia quale mi è dato di conoscere, colse la palla al balzo offrendosi come volontario per dare conforto all’amico sofferente. E noi? Beh, inutile dire che il fatto di non conoscere con precisione l’uscita di una grotta che ha uno sviluppo totale di circa 40 Km, fu considerato un trascurabile dettaglio.

 Pronti, partenza e via! Cominciammo quindi a seguire i cunicoli che ci avrebbero permesso di visitare il cuore di questa montagna. A volte nel letto sabbioso di un torrente in secca, destreggiandoci tra le pareti lavorate dalle acque ed alte diversi metri ai nostri lati, a volte sul ciglio di questo canyon in miniatura  passando spesso come equilibristi da una sponda all’altra, alzando nel buio gli occhi ingordi, mai stanchi di scrutare nella parte più profonda della grotta. Le ore passavano  e gli ambienti si susseguivano nella loro diversità, fino ad arrivare ai primi pozzi. In verità non ricordo di averne  discesi molti. La profondità media doveva essere  di circa 30 metri e tutte le discese vennero effettuate in corda doppia. Una in particolare, anzi due, mi sono rimaste impresse. La “calata” in un ambiente veramente maestoso, un paesaggio di montagna nella montagna, con un rio che scorreva nella valletta sul fondo della grotta, decine di metri sotto di noi. Tutt’intorno a noi altissime pareti che il nostro acetilene riusciva appena a lambire, il rumore dell’acqua ed una specie di sentiero che costeggiava il torrente o piccolo fiume che fosse.

 L’altra fu la discesa del pozzo da 50. Cico, da vero Lord, mi concesse l’onore ed il piacere di precedere il gruppo. Arrivato con il discensore surriscaldato, invitai gli altri a seguirmi con una certa fretta, ma la mezzanotte scoccò con Cico ancora appeso. Fu così che alla base del pozzo ci scolammo le due bottiglie di champagne ed addentammo il panettonazzo che faticosamente ci eravamo trascinati fino a quel momento.  Dopo circa una mezzora decidemmo di ripartire. Durante il recupero della corda (credo fosse una 120), altro attimo di panico.  Sottovalutando le distanze, restammo troppo sotto la parete. Beh, forse non sarà molto fine ma devo ammettere che quando udii il sibilo della corda e la vidi fischiare come una frusta impazzita a pochi centimetri dal Cico, rischiai di farmela addosso. A questo punto, secondo una nostra stima che per altro si sarebbe dimostrata sbagliata, dovevamo essere a circa metà del percorso.

 

 

 Da qui l’itinerario diventò sempre   meno evidente e nonostante la bravura di Cico nell’individuare puntualmente la direzione giusta, si perse parecchio tempo. Fino a quel momento non forzammo troppo l’andatura, fermandoci spesso a rimirare le concrezioni che sempre più frequentemente ci si paravano davanti, e che costituivano di per loro uno spettacolo irrinunciabile. Certo che con il passare del tempo anche la stanchezza iniziò a farsi sentire. Erano circa le 6 del mattino e, nonostante le nove ore circa di cammino, non se ne vedeva la fine.  Ad un certo punto intercettammo un altro fiumiciattolo e vedemmo delle luci. Forse che la stanchezza  ci stesse giocando un brutto scherzo? No, ecco anche le voci. Fu così che ci imbattemmo in un bivacco di speleo “goderecci”, i quali ben lungi dal volere sopportare in quell’occasione grandi fatiche, si erano accampati a sbronzarsi duramente. Ci fermammo quindi giusto il tempo di bere un gotto di carburante e scambiare qualche battuta per poi continuare la discesa negli inferi.

 Dalle informazioni forniteci dai colleghi, ritenemmo di trovarci abbastanza prossimi all’uscita. Ma il tempo passava e non succedeva nulla. Arrivammo quindi in un punto dove si incrociavano diverse gallerie. In alcune  qualche bontempone (ne conosciamo uno!), si era divertito a scrivere la parola USCITA, condannando gli ignari turisti di passaggio ad addentrarsi ulteriormente nelle profondità dell’antro. Iniziò così un penoso vagare, che diventò sempre più pesante quando ci accorgemmo che spesso e volentieri  percorrevamo un tunnel che ci riportava poi nello stesso collettore e/o nelle immediate vicinanze. I ricordi di Cico, come da lui già anticipatoci precedentemente, si fecero labili e sfortunatamente inaffidabili. Nel frattempo le nostre riserve di carburo e di acqua, anche quella potabile, erano ormai scarse per non dire esaurite.

 Fu così che la nostra guida, mosso da non si sa bene quale istinto, si avventurò in una zona che io personalmente non avrei neanche calcolato, se non in presenza di un cartello segnaletico al neon. Attendemmo il suo ritorno nel buio del risparmio per circa ½ ora. Ed eccolo tornare. Il Cico ci disse quindi di avere trovato i canaponi che traversavano delle pareti e che, con grande probabilità, ci avrebbero condotto all’uscita. Unico inconveniente, la calata di una quindicina di metri in corda doppia con contestuale recupero della corda e quindi impossibilità di ritirata. A questo punto invitai gli altri a ragionare sulle possibili conseguenze. Non che temessi per la nostra incolumità fisica ma certo farmi recuperare dal soccorso, mi avrebbe imbarazzato non poco. Messo in minoranza scendemmo e recuperai la corda nominando tutti i santi del calendario.

 Arrivammo quindi ai traversi, e nonostante il grande diametro delle corde non potei non notare che lo stato delle stesse era a volte a dir poco preoccupante. A quel punto però, pur di uscire mi sarei tranquillamente inculato Belzebù!  Iniziammo quindi a risalire una galleria. Ad un certo punto mi infilai in un cunicolo laterale e qui la sorpresa. Dall’alto pendeva una corda. Già, peccato non fosse la nostra. Chiamai gli altri e ben deciso ad uscire in un modo o nell’altro mi ci appesi mentre mi stavano ancora raggiungendo. Dopo circa 4 metri arrivai ad un terrazzino  e scrutando nel buio vidi un’altra corda che pendeva alla base del pozzo  successivo. Constatando che si trattava della nostra, valutai se non fumarmela dalla contentezza.

 A quel punto la via era tracciata e non potemmo, anche se senza vera malizia, non pensare al nostro amico sofferente che ci attendeva all’esterno e che aveva curato l’armo di questo pozzo. Già, perché se gli altri ragazzi da noi incontrati precedentemente non avessero deciso di  passare il capodanno in grotta facendo scendere la loro corda, probabilmente noi staremmo ancora cercando la nostra. Comunque tutto è bene quello che finisce bene. A circa metà del serpente finii anche la batteria dell’elettrico (il carburo era già terminato da qualche tempo) e finalmente dopo avere nominato altri personaggi dall’indubbia sacralità, ecco la luce. Il tratto in uscita era investito da un vento freddo che ci spingeva verso l’interno della grotta tanto soffiava violento. Non appena fuori dopo  circa 12 ore  (record negativo della grotta) di traversata, ci toccò pure fare il cazziatone.  Ma si và, chi se ne frega, pochi minuti per le spiegazioni e via a bere tutti assieme!

           P.S. il racconto di cui sopra potrebbe contenere delle inesattezze essendo basato solo ed esclusivamente sui ricordi del sottoscritto, riguardanti un fatto accaduto diversi anni fa. Ho cercato di descrivere al meglio gli ambienti e le situazioni  che ho vissuto in compagnia di quelle persone che ho frequentato per lungo tempo e per le quali ho il massimo rispetto e serbo un piacevole ricordo.

                                                                            Bese

 

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